Francesca ha 32 anni e una bimba di ventidue mesi. Faceva la commessa in un negozio di abbigliamento del centro storico della Capitale ma è rimasta senza lavoro da poco più di due anni. Non c’entra la pandemia in questo caso, ma la sua maternità. «Ho lavorato per tre anni nello stesso posto con contratti a tempo – racconta – ma quando la mia pancia è cresciuta mi è stato detto che ero d’impiccio e che sarebbe stato il caso di proseguire la gravidanza a casa. Contratto in scadenza e mai più rinnovato. Qualche mese dopo la nascita della bambina ho provato a cercare una nuova occupazione ma il mio essere una neomamma non ha facilitato la ricerca. Anzi. Poi il covid ha fatto il resto. Finora ce la siamo cavata, anche se con grosse difficoltà, grazie allo stipendio del mio compagno, ma adesso lui sta in cassa integrazione e la situazione è davvero complicata». Una storia come tante quella di Francesca, penalizzata ancora oggi dall’essere donna e mamma. Una storia che si ripete a prescindere dal contesto sociale o lavorativo e che, nonostante le conquiste degli ultimi sessant’anni e le tutele contrattuali, continua a rinnovarsi nei contesti più differenti. Ha fatto scalpore qualche giorno fa la vicenda di Lara Lugli, la pallavolista citata per danni dalla società sportiva perché incinta. Ma le storie di Lara e di Francesca non sono casi isolati come si vorrebbe credere.
Antonella è una giornalista che lavorava in maniera continuativa con contratti di collaborazione presso una nota agenzia di stampa. Nove anni fa, al suo terzo mese di gravidanza, l’azienda non le ha più rinnovato il contratto. Stessa sorte per Sara correttrice di bozze presso una società editoriale. Nessuna liquidazione e nessun sostegno economico perché il contratto a tempo non lo prevedeva. Solo un grazie e tanti auguri. Licenziata in tronco invece Beisha, collaboratrice domestica per circa dieci anni presso una famiglia con cui aveva un contratto di tre ore al giorno, ma «praticamente vivevo lì», dice. Licenziata perché in dolce attesa si direbbe, ma l’attesa di un bimbo è ancora oggi ben lontana dall’essere dolce per le tante, troppe donne lavoratrici penalizzate proprio dalla maternità. Unica promessa in questo caso la riassunzione presso la stessa famiglia dopo l’inserimento al nido o all’asilo del bimbo. Promessa mantenuta a tre anni di distanza, tanto che Beisha non ha voluto fare causa né rivendicare un suo diritto per timore appunto di vedere svanita anche questa possibilità. Il suo bambino adesso ha cinque anni, frequenta la scuola materna, «ma con la situazione attuale sono spesso costretta a portarlo con me al lavoro – racconta – e temo che questo possa compromettere nuovamente il mio rapporto di lavoro. Non ho scelta però, qui in Italia sono sola col mio compagno e anche lui cerca di arrangiarsi con lavoretti saltuari».
Storie quotidiane di ingiustizie e soprusi che passano spesso sotto silenzio. Basti pensare anche alle tante lavoratrici in nero – collaboratrici domestiche, badanti, baby sitter, donne agricoltrici – allontanate spesso anche in malo modo proprio per aver osato una maternità divenuta sinonimo di problema più che di gioia. «E poi ci lamentiamo della denatalità, della fuga all’estero dei nostri giovani – commenta il segretario generale della Uil Lazio, Alberto Civica – nonostante le leggi, gli accordi, queste situazioni sono sempre più diffuse e, nella maggior parte dei casi, anche difficili da risolvere perché spesso si tratta non di veri e propri licenziamenti ma di mancato rinnovo del contratto. Situazioni frutto si’ di una cultura maschilista e incentrata esclusivamente sul profitto immediato, ma anche figlie di una precarietà sempre più diffusa che non permette il giusto riconoscimento dei diritti della persona. E’ incinta? Si aspetta la scadenza del contratto e si manda a casa. Senza troppe spiegazioni né conseguenze. E se consideriamo che nel 2019, prima della pandemia, l’80% dei nuovi rapporti di lavoro avviati nel Lazio erano precari, la soluzione appare sempre più lontana».
Situazione che il covid ha ulteriormente esasperato. Non è un caso infatti che siano state proprio le donne i soggetti più penalizzati dalla pandemia. Solo nella nostra regione l’occupazione femminile è scesa di 2,9 punti in termini tendenziali, evidenziando così un peggioramento del gap di genere, passato da 15 punti del II trimestre 2019 a 16,8 punti nello stesso periodo del 2020. Peggioramento rispetto a una situazione che già nella Roma precovid vedeva un tasso di occupazione femminile pari al 57% contro l’oltre 70% degli uomini e che nel 2020 ha significato per otto donne lavoratrici su dieci contratti precari, flessibili e quindi non garantiti.